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Come difendersi dai ransomware secondo il Garante Privacy

Cos’è il “Ransomware”? E’ un programma informatico dannoso che viene diffuso con lo scopo di infettare un dispositivo elettronico, che sia un pc, un tablet, o uno smartphone, bloccandolo oppure criptandone i contenuti (file, foto, video ecc.) per poi chiedere un riscatto (che in inglese si dice appunto “ransom”) per ripristinarlo.

Sul sito del Garante Privacy italiano è stato pubblicato un interessante vademecum su cosa fare in caso i propri dispositivi vengano infettati.

di seguito il Link:

http://garanteprivacy.it/ransomware

 

Si all’assegno divorzile per la ex moglie che prende 400 euro di pensione

Riconosciuto l’assegno divorzile alla ex moglie titolare di una pensione di 400 euro mensili.

L’ex marito presentava ricorso per cassazione avverso la sentenza con cui la Corte di Appello di Milano aveva rigettato la sua richiesta di dichiarare l’inesistenza del diritto dell’ex moglie a percepire l’assegno divorzile, motivando la richiesta con varie argomentazioni, tra cui il fatto che la signora percepisse una pensione.

La Suprema Corte ha riconosciuto il diritto dell’ex moglie a percepire l’assegno divorzile nonostante la modesta pensione di euro 400,00 mensili e nonostante fosse anche proprietaria della casa di abitazione oltre che di terreni all’estero, sempre di modesto valore.

I giudici, dopo aver verificato che i mezzi della ex moglie fossero inadeguati, hanno stabilito che la signora, vista l’età non proprio giovane di 65 anni, non avesse una oggettiva possibilità di procurarsi redditi propri dal punto di vista lavorativo. Hanno inoltre rilevato che il marito, economicamente benestante, non avrebbe avuto alcun problema a far fronte all’importo dell’assegno divorzile liquidato in Euro 600,00 mensili.

Cass. civ., sez. VI-1, 5 dicembre 2017, n. 28994

Impianto centralizzato dell’acqua è parte comune se il regolamento condominiale non prevede diversamente

Nel silenzio del regolamento condominiale l’impianto centralizzato dell’acqua è parte comune

All’interno di un condominio, l’impianto centralizzato dell’acqua costituisce un accessorio di proprietà comune ed obbliga tutti i condomini al pagamento delle spese per la sua manutenzione, anche nel caso in cui ogni unità immobiliare abbia un contatore dell’acqua indipendente.

Così la Corte di Cassazione con ordinanza n. 28616/17, depositata il 29 novembre.

Il caso. La Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di primo grado, condannava un condominio al pagamento delle spese processuali in favore di una condomina, che aveva impugnato la delibera condominiale con la quale si richiedeva alla stessa condomina di installare un contatore dell’acqua privato, in quanto tutti gli altri condomini vi avevano già provveduto, prevedendo altresì che la manutenzione dell’impianto idrico condominiale fosse a suo carico, poiché risultava di fatto l’unica ad usufruirne in esclusiva.
La condomina, per converso, si lamentava dell’invalidità della delibera in considerazione dell’illecito cambiamento di destinazione dell’impianto idrico da proprietà comune a privata.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, il condominio proponeva ricorso per cassazione invocando la presenza di un sistema di tubazioni principali comuni; negando l’esistenza di un impianto idrico condominale, nonché di un interesse, per i restanti condomini, alla contribuzione per le spese dell’impianto idrico, essendo questo utilizzato solamente dalla condomina.

L’impianto centralizzato comune e l’interesse dei condomini. La Cassazione stabilisce che «l’impianto centralizzato (in questo caso, di distribuzione dell’acqua potabile) costituisce un “accessorio di proprietà comune”, circostanza che obbliga i condomini a pagare le spese di manutenzione e conservazione dell’impianto idrico condominiale, salvo che il contrario risulti dal regolamento condominiale, ipotesi quest’ultima che non ricorre nel caso in esame».
In aggiunta, il Supremo Collegio afferma che semmai «alla legittimità del distacco (dall’impianto) consegue al più il solo esonero dei condomini dal pagamento delle spese per il consumo ordinario, non certo i costi di manutenzione».
Infine, deve, diversamente da quanto affermato dal ricorrente, ritenersi sussistente l’interesse dei condomini a contribuire alla manutenzione dell’impianto idrico centralizzato, poiché non può escludersi la possibilità che in futuro questi possano tornare a farne uso.

Da evidenziare che questo orientamento viene ripreso nelle questioni relative al riscaldamento centralizzato, ove singoli condomini vogliano “staccarsi” dall’impianto comune; essi saranno comunque tenuti al pagamento delle spese di manutenzione e conservazione della centrale termica condominiale, fermo restando il loro diritto a staccarsi (a proprie spese) per rendere autonomo il riscaldamento della propria unità immobiliare.

Lavoratore in malattia che svolge attività lavorativa: il licenziamento è legittimo solo in caso di violazione dei doveri di correttezza e buona fede contrattuale

Un lavoratore che durante il periodo di assenza per malattia svolge attività lavorativa corrispondente a quella eseguita in qualità di dipendente può essere legittimamente licenziato?

La Suprema Corte (Cassazione civile, sez. lav. 17/11/2017, n. 27333) ritiene che il comportamento di un lavoratore durante il periodo di assenza per malattia (nel caso di specie si trattava di lavori di meccanica eseguiti dal lavoratore in un proprio locale attiguo alla sua abitazione) possa costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro soltanto ove esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.

Tale violazione è configurabile se il comportamento del lavoratore sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, ad esempio con una simulazione fraudolenta, oppure quando l’attività lavorativa svolta durante l’assenza per malattia sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione ed il rientro in servizio del lavoratore, generando così una violazione dell’obbligazione a carico del dipendente rispetto alla corretta esecuzione del contratto.

Naturalmente occorre tener conto sia della natura dell’infermità denunciata che delle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro.

Va detto, peraltro, che nel caso in esame l’infermità del lavoratore dipendente era stata accertata nel corso del giudizio.

In concreto, se l’attività lavorativa esercitata durante la malattia è marginale e compatibile con la prescrizione medica del riposo, essa non è idonea a generare la presunzione di inesistenza dell’infermità che renderebbe legittimo il licenziamento.

Cassazione civile, sezione Lavoro, 17/11/2017,  Sent. n. 27333

Licenziamento valido anche se il dipendente si rifiuta di ricevere copia dell’atto comunicatogli verbalmente dal datore di lavoro

In riferimento alla comunicazione dell’atto di licenziamento la Corte di Cassazione, con sentenza n. 23503/2017, ha precisato che l’ingiustificato rifiuto da parte del dipendente di ricevere copia dell’atto comunicato solo verbalmente dal datore di lavoro non conferisce illegittimità al provvedimento, considerando che il rifiuto del destinatario di ricevere l’atto unilaterale recettizio non esclude che la comunicazione possa ritenersi regolarmente avvenuta.

La Suprema Corte ha affermato che per orientamento consolidato la giurisprudenza di legittimità ritiene che “nell’ambito del diritto sostanziale, il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di ricevere l’atto stesso non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta” (Cass. sez. lav., nn. 12571/1999 e 1671/1981).

“Se si accerta che la mancata ricezione della copia dell’atto è dovuta ad un ingiustificato rifiuto del lavoratore”, precisa la sentenza in esame, “la comunicazione verbale del licenziamento vale come legittima notifica dello stesso; in relazione al rapporto di lavoro infatti esiste, in linea di massima, l’obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche orali, sul posto di lavoro”.

Cassazione sezione lavoro, sentenza 9 ottobre 2017 n. 23503

Perché non bisogna pubblicare foto dei figli minorenni sui social network

Un recente caso deciso dal Tribunale di Mantova, riportato da tutti i quotidiani nazionali, ha suscitato un notevole interesse vista la delicatezza della materia.

In sostanza il papà di due bambini (di tre anni e un anno), dopo la separazione, chiedeva al giudice un riesame delle condizioni di affidamento dei figli in seguito ad alcuni comportamenti discutibili della madre tra cui la pubblicazione continua di foto dei figli minorenni sui social network.

Il giudice, pur non ritenendo necessario rivedere le condizioni di affidamento, ha verificato che nonostante nell’accordo di separazione fosse stato stabilito l’obbligo di non pubblicare alcuna foto dei bimbi sui social ed in particolare la madre si fosse impegnata a rimuovere quelle già diffuse, in realtà la stessa non solo non aveva provveduto alla rimozione delle foto già pubblicate ma, al contrario, aveva continuato a pubblicare nuove foto e tale azione nulla aveva a che fare con i doveri educativi.

Questi comportamenti, oltre a violare la tutela dell’immagine, la tutela della riservatezza dei dati personali prevista dal Codice della Privacy, nonché della Convenzione di New York, sono anche illegittimi alla luce del nuovo Regolamento Europeo Privacy 2016/679, che entrerà in vigore il 25 maggio 2018, secondo cui «la immagine fotografica dei figli costituisce dato personale» e «la sua diffusione integra una interferenza nella vita privata».

Il giudice, considerato che «il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network» ha ordinato l’immediata rimozione delle foto dei figli minorenni.

Il condomino anticipa spese non urgenti per la manutenzione delle parti comuni senza autorizzazione dell’assemblea? Non ha diritto al rimborso.

Se un condomino anticipa spese non urgenti per la manutenzione delle parti comuni senza autorizzazione dell’assemblea non ha poi un diritto al rimborso da parte degli altri condomini, anche se le opere erano in ogni caso necessarie per la conservazione della proprietà comune.

Due recenti sentenze della Suprema Corte hanno ribadito il principio secondo cui in un condominio non si può decidere di eseguire in autonomia opere necessarie ma non urgenti, senza una preventiva autorizzazione da parte dell’assemblea.

La trascuratezza da parte degli altri condomini nella manutenzione dei beni comuni, infatti, non è sufficiente a giustificare una richiesta di rimborso se un condomino.

D: Che fare allora nei casi in cui, ad esempio, l’androne comune condominiale sarebbe da tinteggiare perché indecoroso e nessuno pare interessarsi?

R: l’unico modo è quello di sollecitare l’amministratore condominiale, chiedendogli a mezzo raccomandata di portare la questione alla prossima assemblea contestualmente a preventivi di ditte specializzate nella esecuzione dei necessari lavori di ripristino.

Nella materia condominiale occorre sempre ricordarsi che eventuali azioni sulle parti comuni poste in essere da un condomino senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea sono sempre rischiose perché potrebbero provocare anche una reazione da parte degli altri condomini, i quali sarebbero addirittura legittimati a chiedere un indennizzo per l’uso esclusivo delle parti comuni posto in essere dal condomino che ha operato in autonomia. Come a dire; oltre al danno, la beffa.

(Cassazione civile, sez. II, 5 ottobre 2017,  n. 23244;  Cassazione civile sez. II, 30 ottobre 2017 n. 25729)

Licenziamento inviato tramite Whatsapp: l’evoluzione del rapporto tra nuove tecnologie e gestione del lavoro dipendente.

Il recesso comunicato dal datore di lavoro tramite Whatsapp rispetta i requisiti essenziali di un atto di licenziamento intimato per iscritto?

In un caso recente il giudice del Tribunale di Catania, con sentenza del 27 giugno 2017, ha dichiarato che il licenziamento tramite Whatsapp costituiva un valido atto di recesso poiché la volontà del datore di lavoro di recedere dal rapporto era stata comunicata per iscritto ed in maniera inequivoca.

Sulla base dei principi generali richiesti dalla legge per la validità dell’atto di licenziamento (manifestazione della chiara volontà di licenziare; incorporazione in un atto scritto; consegna dell’atto al lavoratore) ci si chiede quindi se il licenziamento, in generale, possa essere validamente intimato anche con modalità diverse dalla consegna (a mano o per posta) di un atto cartaceo sottoscritto dal datore di lavoro, ad esempio tramite Whatsapp.

La risposta alla domanda parrebbe quindi positiva, a patto che il messaggio rispetti i requisiti essenziali di un licenziamento intimato per iscritto.

Modalità di comunicazione: ieri, oggi e domani.

Per quanto riguarda il “veicolo tecnico” volta per volta impiegato per la consegna dell’atto di licenziamento, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il licenziamento possa essere validamente intimato persino a mezzo telegramma (Cass. sez. lav., 26 luglio 1996, n. 6749).

Con i notevoli progressi tecnologici che hanno consentito di fornire prova della positiva ricezione di un documento (si pensi alla prova della positiva ricezione di un documento inviato a mezzo telefax), la giurisprudenza di merito, dopo iniziali diffidenze, ha ritenuto pienamente valido il licenziamento fatto con analoghe modalità. Ciò vale anche per i c.d. “sms” (acronimo di Short Message Service) od analoghe applicazioni, come Whatsapp. Il licenziamento intimato tramite sms, infatti, è del tutto analogo a quello intimato tramite telefax e, come tale, valido per il solo fatto di rispettare il requisito della forma scritta (Trib. Torino, 23 luglio 2014).

Alcuni giudici hanno precisato che la legittimità del licenziamento intimato tramite sms deve essere valutata in concreto ed avendo riguardo non tanto alla forma scritta, quanto al fatto che quel messaggio provenga effettivamente dal datore di lavoro e presenti obiettive caratteristiche di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità (App. Firenze, 5 luglio 2016, n. 629, richiamando l’art. 20, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005). Ne deriva, pertanto, che il licenziamento intimato tramite sms sarà pienamente valido ed efficace ogniqualvolta il lavoratore/destinatario non abbia contestato che il messaggio non fosse integro, completo ed adeguatamente leggibile, o che non desse certezza di provenire dal datore di lavoro/mittente.

Poiché l’sms rappresenta un testo elettronico associato ad un dato elettronico (il numero di telefono), la provenienza del messaggio sarà accertabile sulla base del semplice accesso alla rete e dell’invio del messaggio, posto che entrambe le funzioni presuppongono la materiale disponibilità di un dispositivo autenticante (ovvero, la scheda SIM inserita nel telefono) da cui è poi possibile risalire, con certezza, al mittente (Trib. Genova, 5 aprile 2016, n. 223). Da notare che i requisiti tecnici tipici dell’sms (testo elettronico; accesso alla rete telefonica; materiale disponibilità di SIM) sono rinvenibili anche nella nota applicazione Whatsapp (che peraltro recupera le chat inviate e ricevute utilizzando backup associati al numero telefonico).

Il provvedimento del giudice catanese ha quindi risolto la questione circa l’efficacia del licenziamento intimato a mezzo Whatsapp facendo corretta applicazione dei suesposti principi.

Alla luce di ciò, si confida che l’utilizzo dei moderni software di messaggistica, sia per costituire che per concludere rapporti di lavoro, possa superare quella diffidenza tuttora riscontrabile in numerose realtà imprenditoriali e rivelarsi, così, un agile strumento di gestione (e risoluzione) dei rapporti di lavoro (Circolare INL n. 1/2016).

Pare quindi che i moderni software di messaggistica possano rivelarsi efficienti strumenti di gestione di tutti quei rapporti di lavoro resi in modalità “Smart”, in contesti extra aziendali e senza postazione fissa, in cui l’immediatezza e praticità della comunicazione telematica sono componenti essenziali.

Viene da pensare che nei prossimi anni le “virgolette blu” di Whatsapp potrebbero venir considerate come conferma di lettura da parte del lavoratore per le comunicazioni agli “Smart Workers”, tuttora regolamentate dall’art. 18 e ss., L. n. 81/2017). Di sicuro occorrerà adeguare la normativa al progresso tecnologico, ormai inarrestabile.

 

 

 

Sì al prolungamento della corsa dell’ascensore a spese del singolo condòmino

Può un condòmino prolungare a proprie spese la corsa dell’ascensore di un piano? Secondo la Corte d’Appello di Milano la risposta è affermativa.

L’intervento di prolungamento della corsa dell’ascensore dal quarto al quinto piano dell’edificio, che un condomino voglia eseguire a proprie spese, non è innovazione ai sensi dell’art. 1120 c.c. bensì uso della cosa comune regolato dall’art. 1102 c.c.

Un condòmino, dopo aver acquistato un appartamento al quinto piano di un edificio di Milano con ascensore che arrivava solo fino al quarto piano, si è visto respingere dall’assemblea la propria richiesta di innalzamento dell’impianto di ascensore a proprie spese. Nella stessa assemblea peraltro era stata approvata l’eliminazione delle coperture in eternit presenti sul lastrico solare comune, con demolizione dei vani esistenti e installazione di panelli solari o fotovoltaici.

La Corte d’Appello rilevava la legittimità della domanda del condòmino di innalzamento dell’ascensore (e relativo prolungamento della scala) fino al quinto piano, in modo che ne traesse utilità la propria unità immobiliare. I giudici hanno evidenziato che i mutamenti nella composizione di un edificio, che nel caso di specie erano stati trasformati da solai in abitazioni, facevano sorgere esigenze di utilizzo diverso e più intenso delle parti comuni già esistenti quale – appunto – l’ascensore, posto originariamente non a servizio di tutti i piani. L’innalzamento di un piano dell’ascensore e della scala da parte di un condomino non è quindi in conflitto con l’art. 1102 c.c., poiché si tratta di una modifica che non altera la destinazione delle parti comuni, non impedisce l’altrui paritario uso e rientra nelle facoltà del condomino per una “migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa, facoltà che incontrano solo i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c.” (Cass. 4 settembre 2017, n. 20712).

La Corte di Milano ha quindi correttamente applicato l’art. 1102 c.c. dichiarando la nullità della delibera assembleare nella parte in cui aveva rigettato la richiesta del condomino di realizzare, a proprie spese, il prolungamento dell’ascensore e della scala dal quarto al quinto piano, mentre ha ribadito la validità del punto della delibera impugnata che aveva deciso l’installazione di pannelli solari o fotovoltaici sul lastrico solare comune, dovendosi nell’uso di questo bilanciare gli auspici del singolo condomino che voglia fare di tale bene un utilizzo diverso e più intenso con gli interessi collettivi degli altri partecipanti.

Corte d’Appello, Milano, sez. III, sentenza 18/05/2017 n°2145

Nessun compenso extra all’amministratore condominiale per opere straordinarie non deliberate

L’amministratore di condominio agisce in base ad un mandato da parte dei condomini, che viene conferito con uno specifico incarico.

Nel mandato devono essere indicati sia l’attività necessaria allo svolgimento dei compiti istituzionali dell’amministratore sia il compenso stabilito per l’attività amministrativa di durata annuale. In base alla disciplina del mandato, quindi, nella retribuzione dell’amministratore (mandatario) si intende compresa tutta l’attività prestata in favore del Condominio (mandante).

D: Siamo obbligati a pagare un compenso extra all’amministratore che ha fatto eseguire lavori di ristrutturazione non preventivamente richiesti in assemblea perché, a suo dire, urgenti?

R: La legge (art. 1129 c.c.) prevede che all’atto di accettazione della nomina o del rinnovo, l’amministratore deve, a pena di nullità della nomina, specificare con chiarezza l’importo complessivo dovutogli a titolo di compenso. Da ciò si ricava che l’eventuale richiesta di un compenso aggiuntivo per le opere straordinarie eseguite senza la preventiva approvazione da parte dell’assemblea è illegittima e quindi, in questi casi, nessun compenso extra è dovuto all’amministratore.

Stesso discorso vale per il rimborso di spese anticipate dall’amministratore senza la preventiva autorizzazione da parte dell’assemblea, non potendo il relativo credito considerarsi liquido ed esigibile in mancanza di una valida delibera.

(Trib. Genova n. 1501/2001; Cass. n. 3596/2003; Cass. n. 22313/2013)