Reintegra in caso di licenziamento disciplinare senza preventiva contestazione

Il caso.

Un lavoratore aveva convenuto in giudizio la società datrice di lavoro, per sentir dichiarare la nullità e/o l’illegittimità del licenziamento per mancanza di preventiva contestazione disciplinare e per sentir condannare la convenuta, di conseguenza, a reintegrarlo nel posto di lavoro ai sensi del comma 4 dell’art. 18, st. lav.; in subordine, per sentir dichiarare l’illegittimità del licenziamento per carenza di giusta causa, e per sentir condannare la convenuta alle tutele di cui al comma 5 dell’art. 18, st. lav.

La tutela reintegratoria nel caso di licenziamento disciplinare in assenza di preventiva contestazione.

In tema di licenziamento disciplinare intimato senza preventiva contestazione scritta, la Suprema Corte ha affermato che “il radicale difetto di contestazione dell’infrazione determina l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell’art. 18, l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012”, precisando che l’art. 18, l. n. 300 del 1970, come modificato dal comma 42 dell’art. 1, l. n. 92 del 2012, distingue il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicché ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

La tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per il fatto sussistente ma non illecito.

L’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18, st. lav., come modificato dal comma 42 dell’art. 1, l. n. 92 del 2012, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità.

La tutela obbligatoria nel caso di licenziamento per il fatto più o meno grave che implica un  giudizio di proporzionalità.

Riprendendo tali principi la Suprema Corte ha quindi affermato che l’assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all’ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell’insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della tutela cd. reale.

Il Tribunale di Bari accoglieil ricorso e annulla il licenziamento intimato al ricorrente e ordina di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro.

Fonte: ilgiuslavorista.it

Banca condannata a risarcire i danni da phishing su conti correnti online

In caso di bonifici illecitamente effettuati su conti correnti online, per mezzo di condotte fraudolente volte a carpire codici di protezione e a sottrarre somme di denaro (c.d. phishing), spetta alla Banca fornire la prova del corretto funzionamento del proprio sistema e, quindi, della riconducibilità dell’operazione al correntista che l’abbia disconosciuta, in applicazione del principio consolidato sulla ripartizione dell’onere della prova in materia di responsabilità contrattuale.

L’Istituto di credito è tenuto ad una diligenza valutabile tenendo conto del modello dell’operatore professionale, qual è l’accorto banchiere (bonus nummarius); peraltro, la corretta operatività del servizio bancario mediante collegamento telematico – che corrisponde ad un interesse della banca stessa – rientra a pieno titolo nel rischio d’impresa, con la conseguenza che grava sulla Banca una responsabilità di tipo oggettivo o semioggettivo, da cui la stessa va esente solo provando quantomeno in via presuntiva che le operazioni contestate dal cliente sono allo stesso riconducibili.

Tribunale di Parma, sezione prima, sentenza n. 1268 del 6 settembre 2018 (In senso conforme Cass. Civ. n.9158/2018)

Fonte: ilsocietario.it

Motivazioni della Corte Costituzionale nella sentenza che dichiara illegittimo il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento stabilito dal Jobs Act

Depositata la sentenza della Corte costituzionale 8 novembre 2018, n. 194, che dichiara illegittimo il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento stabilito dal Jobs Act per il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte in cui calcola in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. Per la Corte costituzionale non è in discussione il meccanismo di ristoro economico, c.d. a tutele crescenti, al posto della tutela reale; ad essere illegittimo è il sistema rigido di previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore, contrario, secondo la Corte, ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e in contrasto con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Tutte le altre questioni relative ai licenziamenti sono state dichiarate inammissibili o infondate.

Fonte: ilgiuslavorista.it

Licenziamento: obbligo di repêchage e tutela reintegratoria.

Cass., sez. lav., 22 ottobre 2018, n. 26675

Secondo i giudici della Cassazione il licenziamento effettuato dal datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo nei confronti di un dipendente, senza averne verificato l’idoneità ad alternative possibili mansioni compatibilmente con il suo stato di salute, è ingiustificato e determina l’applicazione della tutela reintegratoria.

Il caso. La Corte d’appello di Torino aveva dichiarato risolto il rapporto di una lavoratrice, dalla data del suo licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni e aveva condannato il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Per i giudici di appello infatti il recesso era stato intimato senza aver rispettato l’obbligo di repêchage, consistente nella ricerca di soluzioni alternative al licenziamento, compatibili con lo stato di salute, anche eventualmente dequalificanti.

Per gli stessi tuttavia, la violazione di tale obbligo non aveva configurato una ipotesi di manifesta infondatezza del fatto posto a base del licenziamento tale da comportare l’applicazione della tutela reintegratoria di cui al comma 4 dell’art. 18, st. lav.

Obbligo di repêchage e tutela reintegratoria. La lavoratrice nel ricorso in Cassazione sostiene invece che, ove sussistenti nell’assetto organizzativo della azienda mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore, anche se inferiori rispetto a quelle precedentemente svolte, il motivo posto a fondamento del licenziamento sia da ritenersi del tutto insussistente, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18, st. lav.

La Corte di cassazione accoglie tale motivo, ponendosi – ricordano i giudici di legittimità – nel solco del principio già affermato dalla stessa secondo cui il comma 7 dell’art. 18, st. lav., prevede espressamente la reintegrazione per il caso in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione del licenziamento “intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore senza attribuire al giudice stesso alcuna discrezionalità” (v. Cass. 30 novembre 2015, n. 24377).

Non sembra pertanto dubbio – proseguono i giudici della Cassazione – stante il dato normativo di riferimento, che un licenziamento per motivo oggettivo in violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute, sia qualificabile come ingiustificato.

Tale interpretazione appare anche confermata, ricordano, dal principio sancito di recente da Cass. 2 maggio 2018, n. 10435, afferente al licenziamento per motivi economici.

Infine – concludono – la decisione risulta coerente con la tutela riconosciuta a livello europeo e internazionale, anche di rango costituzionale, ai lavoratori disabili (dir. 78/2000/CE del 27 novembre 2000 e art. 26, Carta dei diritti fondamentali UE, nonché Convenzione sui diritti del disabile delle Nazioni unite del 13 dicembre 2006) e con il successivo sviluppo della legislazione in materia di tutele operanti in caso di licenziamenti intimati rispetto a contratti di lavoro stipulati successivamente al 7 marzo 2015 e difformi dal modello legale posto che “il d.lgs. n. 23 del 2015 ha previsto nell’ipotesi di difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore la tutela reintegratoria piena”.

Fonte: ilgiuslavorista.it

Licenziamento illegittimo: prime reazioni dei giudici di merito nell’attesa della Sentenza della Consulta sulla quantificazione della indennità

Come noto, la Corte costituzionale in data 26 settembre 2018 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, comma 1, D.lgs. n. 23 del 2015 (Jobs Act), nella parte in cui determina in modo rigido, sulla base della sola anzianità di servizio, l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. Tale pronuncia della Consulta non risulta ancora depositata (dovrebbe essere ormai questione di giorni).

Il giudice del lavoro di Bari, a fronte di tale pronuncia costituzionale, pur nella consapevolezza – scrive – che “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione […] e che tale pubblicazione nella specie non è ancora avvenuta, si ritiene di dover interpretare in maniera costituzionalmente orientata l’art. 3, comma 1 ancora (presumibilmente per pochi giorni) vigente, determinando l’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato, compresa fra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità, sulla base dei criteri già enunciati dall’art. 18, comma 5, St. Lav., a sua volta richiamato dall’art. 18, comma 7, vale a dire in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”.

Tribunale di Bari, sezione lavoro, 11 ottobre 2018.

Responsabilità omissiva del Collegio Sindacale se svolge in ritardo le attività di controllo

La Cassazione ha stabilito che il ritardo nello svolgimento della doverosa attività di controllo del collegio sindacale ai sensi degli artt. 2403 e ss. c.c. determina la responsabilità omissiva del collegio sindacale, anche se tale attività è stata effettivamente compiuta in epoca successiva.

Cassazione Civile, Seconda Sezione, Sentenza n. 23552 del 28 settembre 2018.

Corte Costituzionale: il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento stabilito dal Jobs Act è illegittimo

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento stabilito dal Job Act (art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015), per il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte -non modificata dal successivo Decreto dignità (d.l. n. 87 del 2018) – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato.

Per la Corte costituzionale, come si legge nel Comunicato, non è in discussione il meccanismo di ristoro economico, c.d. a tutele crescenti, al posto della tutela reale; ad essere illegittimo è il sistema rigido di previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.

Tutte le altre questioni relative ai licenziamenti sono state dichiarate inammissibili o infondate.

Attendiamo di leggere la sentenza che verrà depositata nelle prossime settimane.

Fonte: ilgiuslavorista.it

Food delivery: non c’è subordinazione se il rider è libero di stabilire se e quando lavorare.

Nel rapporto di lavoro tra una multinazionale del food delivery e il rider, il fatto che il lavoratore sia libero di decidere se e quando lavorare, esclude il vincolo della subordinazione. La libertà di stabilire la quantità e la collocazione temporale della prestazione lavorativa, i giorni di lavoro e quelli di riposo, e il loro numero, rappresenta infatti un fattore essenziale dell’autonomia organizzativa, incompatibile con la natura subordinata del rapporto (nel caso di specie, il rider non aveva vincoli di sorta, in fase di prenotazione degli slot, nella determinazione dell’an, del quando e del quantum della prestazione).

Tribunale Milano, sez. lav., 10 settembre 2018, n. 1853

Fonte: ilgiuslavorista.it

Licenziamento illegittimo se basato su indagini investigative che non si limitano a verificare l’adempimento della prestazione lavorativa

Il caso. La Corte d’appello di Napoli confermava la sentenza di prime cure con cui era stata rigettata la domanda di declaratoria di illegittimità del licenziamento proposta da un dipendente di Rete Ferroviaria Italiana s.p.a.

Il provvedimento del datore di lavoro si basava sulle false presenze lavorative per diverse giornate, create tramite manomissione del sistema di rilevazione delle presenze, accertate tramite controlli effettuati dalla datrice di lavoro tramite un’agenzia investigativa.

Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il lavoratore.

Accertamenti. Delle diverse censure proposte, risulta fondato l’ultimo motivo con cui viene dedotta la violazione degli articoli 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori. Fermo restando che tali disposizioni tutelano la libertà e la dignità del lavoratore, il datore di lavoro ha la possibilità di ricorrere alla collaborazione di altri soggetti – come un’agenzia investigativa – diversi dalle guardie giurate per la tutela del patrimonio aziendale, così come di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare le specifiche mancanze dei dipendenti.

Tale potere di controllo tramite soggetti esterni non si estende però alla verifica dell’adempimento o meno dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera: l’adempimento dell’attività lavorativa è infatti sottratto alla vigilanza la quale deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione principale.

In conclusione, posto che le agenzie di investigazione per operare legittimamente non devono sconfinare nella vigilanza sull’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’art. 3 Stat.  Lav. al datore di lavoro, la sentenza della Corte d’appello merita l’annullamento.

(Fonte: Diritto e Giustizia)