Si può rinegoziare il canone di locazione commerciale in conseguenza del coronavirus?

Partendo dal presupposto che attualmente non esiste alcuna norma che autorizzi espressamente il conduttore di un immobile commerciale a sospendere o a ridurre il canone di locazione nell’ipotesi in cui la cui la sua attività sia stata interdetta dai provvedimenti emergenziali, ci si domanda se la chiusura forzata possa rappresentare un valido motivo per rinegoziare il canone.

Secondo l’art. 1467, commi 1 e 3, c.c., nei contratti a esecuzione continuata o periodica, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa (pagamento del canone) per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili (Covid-19) la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto; l’altra parte, invece, può evitarla offrendo una modifica atta a ricondurlo a equità. Secondo questo principio, il contratto di locazione, come ogni altro contratto a prestazioni corrispettive, deve necessariamente mantenersi un apprezzabile equilibrio nei rapporti di forza tra le parti, suscettibile di valutazione economica. E quindi, per un equilibrio contrattuale, l’obbligato conduttore potrebbe chiedere una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione delle modalità di esecuzione, sufficienti a ricondurla ad equità (art. 1468 c.c.). Va evidenziato, inoltre, che alla rideterminazione del canone soccorrerebbero anche molti altri principi generali quali la buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) e l’equità quale mezzo di integrazione dello stesso (art. 1374 c.c.).

In conseguenza dell’incertezza di una soluzione giuridica che soddisfi in pieno entrambe le parti, in assenza di uno specifico riferimento normativo, si consiglia al conduttore di provvedere a contattare quanto prima il locatore (per iscritto) ed invitarlo a rinegoziare, temporaneamente, il canone locatizio previsto nell’originario contratto di locazione, fino al perdurare della crisi economica.

Fonte: condominioelocazione.it (Estratto da Quesiti Operativi)

Il Trust autodichiarato è esente da imposizione proporzionale

L’istituzione di un trust autodichiarato il cui disponente-trustee individua quali beneficiari finali, per una parte del fondo, sé medesimo e il coniuge, se in vita, e altrimenti i discendenti e, per altra parte del fondo, sé medesimo, il cognato e la suocera, se in vita, e altrimenti i loro legittimi eredi è esente da imposizione proporzionale in quanta manca un effettivo trasferimento di beni e diritti che dia luogo al presupposto impositivo del reale arricchimento.

Corte Suprema di Cassazione, V sezione civile n. 8082 – 23 aprile 2020

Sì al Trust familiare autodichiarato se persegue finalità lecite e meritevoli

La coincidenza delle figure di disponente e trustee in capo alla medesima persona non vale di per sé a rendere il trust illecito, essendo anche il trust autodichiarato riconosciuto nel nostro ordinamento. Il trust familiare la cui causa concreta consista nella costituzione di un patrimonio separato destinato al soddisfacimento delle esigenze abitative delle mogli e dei figli dei disponenti persegue una finalità lecita, così che la sottrazione dei beni alle pretese dei creditori dei disponenti non è il motivo unico o essenziale del trust.

È revocabile ex art. 2901 cod. civ. il trust familiare autodichiarato istituito dal disponente, socio accomandatario della s.a.s. debitrice – posta in
liquidazione – e dunque responsabile con tutto il proprio patrimonio, successivamente alla sentenza di accertamento del credito: la scientia damni in capo al disponente si desume dall’epoca del sorgere del credito (risalente al momento della cessazione del rapporto di lavoro del creditore agente in revocatoria con la s.a.s.), mentre l’eventus damni sussiste per non avere il disponente indicato altri beni sui quali il creditore potrebbe rivalersi.

In questo senso, Tribunale Civitavecchia – 20 novembre 2019

Arbitrato societario e azione di responsabilità contro gli amministratori dopo la dichiarazione di fallimento

In tema di azione di responsabilità contro gli amministratori di s.r.l., valutata la natura inscindibile delle azioni esperibili dalla società e dai creditori, una volta dichiarato il fallimento della società, la clausola compromissoria contenuta nello statuto della società è inoperativa, con la conseguenza che il Presidente del Tribunale non può dar seguito alla richiesta avanzata dal curatore del fallimento di nominare, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., gli arbitri.

Tribunale di Roma – 9 dicembre 2019, decr.

Fonte: ilsocietario.it

Impugnazione di delibere assembleari da parte del socio che deduce la propria mancata convocazione e la falsità del corrispondente verbale

Massima

La cassazione Civile, sezione I, con Sentenza 30 ottobre 2019 n. 33233 in materia di impugnazione di delibere assembleari ha riaffermato il principio secondo cui grava sui soci, che impugnino una delibera assembleare di società di capitali, l’onere di provare la non corrispondenza alla realtà del contenuto del verbale, oggetto di contestazione in sede di impugnazione; tale prova può essere raggiunta con ogni mezzo qualora il verbale non sia redatto da notaio, occorrendo altrimenti l’attivazione del procedimento per querela di falso.

Fonte: ilsocietario.it

Spese di riscaldamento: al proprietario spetta la manutenzione dei componenti radianti del proprio appartamento

In tema di condominio, per quelle delibere emesse prima dell’adozione dei sistemi di misurazione del calore e, dunque, precedenti alla normativa nazionale e comunitaria sul risparmio energetico, ai fini della ripartizione delle spese di riscaldamento, è considerato valido il criterio base della superficie radiante in quanto conforme al principio generale di cui all’art. 1123, comma 2, c.c.

In caso di malfunzionamento del proprio impianto, spetta al proprietario curare la manutenzione dei componenti radianti del proprio appartamento.

(Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 6735/20; depositata il 10 marzo)

Fonte: dirittoegiustizia.it

La nozione di attività di direzione e coordinamento di società nel gruppo di imprese

La disciplina del “gruppo di imprese”, quale contenuta tra l’altro ed in specie negli artt. 2497 e ss., c.c., non fornisce alcuna definizione normativa del fenomeno, né tantomeno chiarisce le caratteristiche ed i contenuti dell’attività di direzione e coordinamento di società, la quale, agli effetti della norma “fondamentale” sulla responsabilità della società capogruppo, rileva essenzialmente sul piano fattuale, con riferimento alle ipotesi “patologiche” di illegittima lesione dei diritti e degli interessi coinvolti dall’esercizio dell’attività medesima.
Se questo è vero, è opinione largamente diffusa, che trova riscontro anche nelle prospettive evolutive del diritto comunitario, che la suddetta disciplina possa e debba essere interpretata in termini di “diritto di organizzazione”, oltreché “di diritto di protezione”.
In questa prospettiva, la disposizione generale sulla responsabilità della società o ente capogruppo, se innegabilmente ispirata e rispondente ad istanze “immediate” di tutela e di protezione degli interessi potenzialmente pregiudicati dei soci di minoranza e dei creditori, viene, al tempo stesso, a delineare e legittimare un peculiare modello di organizzazione e gestione dell’impresa (impresa organizzata in “forma di gruppo”) fondato sull’esercizio (legittimo) dell’attività direzione e coordinamento su società, modello organizzativo che, come tale, presuppone l’elaborazione e l’individuazione di regole di azione, di organizzazione e di procedimento, oltre che di responsabilità.
Se questo è vero, l’art. 2497 c.c., da un lato, opera in funzione c.d. “normogenetica”, attraverso il richiamo di principi e standards generali, con ciò individuando, in positivo, le condizioni di correttezza sostanziale dell’esercizio dell’attività di direzione unitaria, dall’altro, ove si interpreti la regola dei c.d. vantaggi compensativi in una prospettiva di carattere sistematico, si configura in termini di “Enablig Law”, nella misura in cui viene a “consentire ed agevolare” la direzione ed il coordinamento di società, riconoscendo alla società capogruppo un potere gestorio a carattere discrezionale di contenuto più ampio rispetto a quello riscontrabile in relazione alla singola impresa societaria, consistente nel “privilegio” di impartire direttive agli amministratori della società dipendente che possano anche essere “prima facie” pregiudizievoli, a condizioni che il danno sia successivamente eliminato con operazioni a ciò dirette o risulti comunque mancante in ragione dei vantaggi legati all’appartenenza al gruppo (in questi termini, da ultimo, TOMBARI, La tutela dei soci nel gruppo di società, in La riforma del diritto societario dieci anni dopo. Per i quarant’anni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2015, 237 e ss.).
In assenza di una definizione normativa di attività di direzione e coordinamento, può affermarsi che questa consista, nelle sue linee generali, nell’esercizio effettivo del potere di una società o ente di dirigere e coordinare altre società o enti secondo un progetto unitario: e questo mediante un coordinamento – e non necessariamente un accentramento – di una o più delle “funzioni” essenziali dell’impresa c.d. dipendente quali, in primo luogo, la finanza, le vendite, gli acquisti, la politica del personale, l’organizzazione, ecc. (cfr. TOMBARI, Diritto dei gruppi di imprese, Milano, 2010, 23 e ss.; SBISÀ, sub art. 2497, in Direzione e coordinamento di società, in Commentario Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2014, 105 e ss.).
Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato che “per attività di direzione e coordinamento debba intendersi l’esercizio di una pluralità sistematica e costante di incisione sulle scelte gestorie della società subordinata, cioè sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale, commerciale che attengono alla conduzione degli affari sociali” (in tal senso, Trib. Milano, 10 novembre 2014, in Società, 2015, 1377; v., anche, Trib. Pescara, 16 gennaio 2009); un’attività, quindi, consistente in una sequenza di atti ripetuti nel tempo “volti a coordinare la politica economica e le linee essenziali dell’attività delle società collegate, imprimendo una identità o conformità di indirizzi operativi ad una pluralità di soggetti formalmente distinti, in modo che il gruppo venga gestito in modo unitario” (v. Trib. Milano, 27 febbraio 2012). …(omissis)…

Fonte: ilsocietario.it

Società di persone: responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali

Le società di persone sono caratterizzate dal fatto che i creditori sociali possano agire non solo sul patrimonio sociale ma anche su quello personale dei soci i quali rispondono illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali rimaste insoddisfatte (artt. 2267, comma 1 e 2291, comma 1, c.c.).

In particolare, nella società semplice e nella società in nome collettivo, delle obbligazioni sociali risponde in primo luogo la società con il suo patrimonio e nel in caso questo non sia sufficiente a soddisfare i creditori, i soci rispondono solidalmente ed illimitatamente.

Nel caso, invece, della società in accomandita semplice illimitatamente responsabile è il solo socio accomandatario, ovvero colui che amministra la società, mentre i soci accomandanti sono responsabili limitatamente alla quota conferita.

La responsabilità illimitata e solidale dei soci per le obbligazioni sociali serve a tutelare i creditori sociali i quali, non essendo le società di persone dotate di capitale di rischio come le società di capitali, si troverebbero sprovvisti di tutele creditorie.

In questo modo viene potenziata la garanzia generale delle obbligazioni contratte dalla società attraverso il patrimonio individuale dei soci.

Il regolamento non può vietare al condomino la scelta di distaccarsi dal riscaldamento centralizzato

Sia in primo grado che in secondo grado, i giudici del merito avevano rigettato le domande di accertamento della legittimità del distacco realizzato dagli attori negli appartamenti di loro proprietà dall’impianto centralizzato di riscaldamento, con determinazione della quota di partecipazione a loro carico in relazione alle spese di esercizio, nonché di annullamento delle delibere assembleari con le quali era stata respinta la richiesta di autorizzazione al distacco. In particolare, la Corte territoriale confermava la decisione ritenendo illegittimo il distacco dall’impianto centralizzato di riscaldamento, rilevando che l’art. 10 del regolamento condominiale non consentiva la rinuncia all’uso degli impianti comuni e statuiva l’obbligatorietà dei relativi canoni. Avverso tale pronuncia, i condomini hanno proposto ricorso in Cassazione eccependo che la Corte d’appello era incorsa in errore nel dare prevalenza alle pattuizioni contenute nel regolamento condominiale, a fronte della previsione dell’art. 1118, comma 4, c.c. che conferisce al singolo condomino la facoltà di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento, sempre che da ciò non derivino notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini.

Nel giudizio di legittimità, la S.C. contesta il ragionamento espresso nel provvedimento impugnato. Difatti, ai sensi dell’art. 1118, comma 4, c.c. il diritto del condomino a distaccarsi dall’Impianto di riscaldamento centralizzato è disponibile e di conseguenza sono nulle le clausole dei regolamenti condominiali che vietino il distacco; il regolamento condominiale può, invece, legittimamente obbligare il condomino rinunziante a concorrere alle spese per l’uso del servizio centralizzato, poiché il criterio legale di ripartizione delle spese di gestione dettato dall’art. 1123 c.c. è derogabile. Pertanto, nel caso di specie, essendo il regolamento condominiale preesistente all’entrata in vigore dell’art. 1118, comma 4, c.c., la norma sopravvenuta ha inciso sull’efficacia della clausola contrattuale. Per le suesposte ragioni, il ricorso è stato accolto; per l’effetto, la pronuncia è stata cassata con rinvio.

Cass. civ., sez. II, ord. 11 dicembre 2019, n. 32441

Fonte: condominioelocazione.it